venerdì 7 dicembre 2007

Molise. Pianti e sorrisi



Molise. Tra sorriso e pianto




di Roberto Maurizio








« Dolce paese, onde portai conforme
l'abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
pur ti rivedo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra il sorriso e il pianto,
e in quelle seguo dei miei sogni l'orme
erranti dietro il giovanile incanto. »
(Giosuè Carducci, Traversando la maremma toscana)

La terra del mulino


San Martino in Pensilis - Molise

La poesia di Carducci, ovviamente, si riferisce alla Maremma, ma, sotto certi aspetti, delinea alcuni tratti essenziali del Molise. Una piccola Regione racchiusa tra Lazio, Abruzzo, Mar Adriatico, Puglia e Campania, il Molise è una terra in cui la gente va fiera della propria identità. Anche se colpita, come le altre regioni meridionali, dal brigantaggio dopo l’”invasione piemontese”e la caduta del Regno borbonico delle Due Sicilie, il Molise non ha mai dato spazio a nessuna forma organizzata di delinquenza (Mafia, Camorra, Sacra corona unita). La “terra del mulino” presenta un paesaggio identico a tanti altri sparsi nel mondo. Il terreno è ricco di calcare, marmo e argilla, con fenomeni carsici come doline e grotte. Un paesaggio collinare che può avere le stesse sembianze del territorio vicino Sakata (Giappone), vicino Monasque, in Provenza (Francia), tra Brisbane e Toowoomba (Australia), tra Montevideo e Mercedes (Uruguay). Nei secoli, non ha mai conosciuto una crescita economica accentuata ed effervescente e non mai “brillato” per le sue scarse risorse naturali. Terre abbandonate dall’abbondanza, dove il reddito prodotto è sempre stato inferiore a quello delle zone circostanti: il Tavoliere delle Puglie, la Ciociaria, il Beneventano, le terre ai piedi della Maiella. Però, non sono mai mancati al popolo molisano: la tenacia, diversa della testardaggine degli abruzzesi; la forza della coesione sociale per sopravvivere a condizioni ambientali non favorevoli; lo spirito di accoglienza (in Molise si sono “acclimatate” popolazioni croate e albanesi che non hanno mai perso la loro identità originaria, ma che si sentono orgogliosamente molisani), il sorriso; il pianto.
Il sorriso gli viene regalato dalla configurazione del terreno che declina dolcemente verso il mare e lo distingue, perciò, dal vecchio e scorbutico “saggio Abruzzo” e dalla giovane e spavalda “tumida Puglia”, il primo montuoso e arcigno, la seconda piatta e capricciosa. Il pianto, congenito nella popolazione, frutto delle sofferenze patite in silenzio, raccoglie le sue radici nella disperazione che hanno indotto la sua gente a cercar fortuna al di là dei confini angusti e inospitali . Oggi, il Molise conta circa 320 mila abitanti (in pratica più piccolo di Firenze con 356 mila abitanti), ma altrettanti sono quelli che hanno abbandonato questa terra (la cifra esatta la forniremo in seguito). Tra questi, ci sono anch’io. I legami con la madre terra non si perdono mai!



San Martino in Pensilis (Cb)


E’ difficile essere felici, dopo secoli di assoggettamento alla povertà, ed è impossibile non piangere, quando i tuoi figli sono nascosti come ombre nell’oscurità in altri continenti e dispersi come sabbia in terre tanto lontane mai prima nemmeno conosciute. Australia e Argentina rappresentano gli antipodi della Regione. “Fortunati” gli europei (Francia, Belgio, Germania) e gli americani (Stati Uniti e Canadà), di “casa” i molisani milanesi, torinesi, fiorentini, romani.
Molise, allora, è un immenso sorriso tra tanti pianti.
Dietro il sorriso di ogni molisano non trovi mai la piena felicità, come nei loro pianti non si nascondono solo amarezza e disperazione, ma anche tanta speranza.

Rilanciare la “molisanità”

Il quadro così apocalittico e viscerale fin qui disegnato, non rispecchia pienamente l’attuale situazione della Regione, anch’essa immersa nella globalizzazione. Oggi con Internet tutto è più vicino e tutto è più immediato e sentito. Questo blog raggiungerà tutti i molisani del mondo che cercheranno sulla rete, anche inconsapevolmente, il ricordo della loro terra d’origine.
Lo sviluppo economico, poi, da qualche anno comincia a farsi luce nella zona. Grandi passi avanti sono stati realizzati dagli anni bui del dopoguerra: l’igiene, innanzitutto, l’elettrificazione, le infrastrutture (Bifernina, Liscione, Porto di Termoli, etc.), l’occupazione giovanile (Fiat). Occorre ancora fare molta altra strada per avvicinarsi allo sviluppo delle Regioni vicine, soprattutto Puglia e Abruzzo, che stanno manifestando tassi di crescita non solo economica ma anche di sviluppo sostenibile. La gente molisana sa di potercela fare, anche perché l’alternativa sarebbe di nuovo l’emigrazione. Il Molise, come le altre regioni italiane, sta accogliendo molti extracomunitari che potrebbero rappresentare una forza per lo sviluppo del territorio.
Questo spazio riservato al Molise avrà un seguito anche con il contributo di altri miei compaesani molisani. L’obiettivo è quello di rafforzare la dignità di una Regione poco conosciuta in Italia, figuriamoci nel mondo, e rilanciare la “molisanità”, nonostante tutto. Nonostante, Di Pietro e gli “amministratori” della Regione.

Dal Tridentum alla Trinacria

Non tutte i nomi delle regioni italiane sono immediatamente riconducibili ad un significato univoco e immediatamente comprensibile. Tra le etimologie più chiare citiamo, ad esempio, Lombardia, terra dei Longobardi, distinta da Romagna, terra dei romani. Tra quelle più controverse c’è l’etimologia del Molise. Vediamo le etimologie di tutte e 20 le regioni italiane. Partendo da nord a sud: Trentino (deriva da Tridentum, triforcazione, quindi poi Trento) Alto Adige (dall’omonimo fiume), Veneto (da Heneti che potrebbe derivare da wene-to, popolo vittorioso), Friuli (da Forum Iulii) Venezia Giulia (dalle omonime Alpi), Lombardia (terra dei Longobardi), Piemonte (Pedemontium, ai piedi delle Alpi), Val d’Aosta (da Augusta Praetoria), Emilia (l’VIII regione di Augusto) e Romagna (la Romania, appartenente ai romani), Liguria (la terra dei liguri) , Toscana (da Tusci, la terra degli Etruschi) , Marche (da zona comandata dai Marchesi), Umbria (terra degli Umbri), Abruzzo (Aprutinum, presso i Praetuti), Lazio (terra dei Latini, da latus, largo, pianeggiante), Molise (potrebbe derivare dal latino mola, ossia mulino con l'aggiunta del suffisso –ensis; secondo una recente ipotesi il nome deriva da una famiglia normanna ed è collegato ad un luogo francese Moulins-la-Marche che deriva dal cognome Moulins che viene nominato nei documenti italiani come Mulisio da cui il nome odierno della regione, Puglia (Apulia, dal greco iapudes, popoli che venivano dall’altra sponda dell’Adriatico), Campania (dal greco kampè, curva; dal latino campus, piana coltivata, Campania Felix; da kappani, abitanti di Capua), Sardegna (dal latino Sardinia , e dal greco Sardonia), Basilicata (da basilokos, amministratore bizantino; basilica di Acerenza; in epoca romana e fascista veniva chiamata Lucania), Calabria (da Calabri, che si riferisce in epoca preromana cala che significa roccia), Sicilia (dal greco Sikelia, in latino Sicilia, dal nome del popolo che abitava la zona, Sikeloi, la regione viene chiamata anche Trinacria).

Senza splendor delle corti

Il nome Molise compare solo nell'alto Medioevo come quello di una contea normanna, derivando da quello di un castello di Molise, oggi piccola borgata fra Torella del Sannio e Duronia. Nel momento di massima espansione la contea si estese fino al Volturno, al Trigno, al Fortore, ai monti del Matese e all'Adriatico. Il territorio durante il X secolo fu conteso tra Bizantini e Longobardi, trovandosi poi nel secolo successivo le contee che lo costituivano a dover fronteggiare gli invasori normanni. Verso la metà del secolo si trova costituita un'unica contea normanna del Molise, il cui primo nucleo fu Boiano, che assorbì le contee di Isernia e Venafro e gran parte del territorio dei Borrelli sotto la signoria del normanno conte Rodolfo. Da Ugo I, conte nel 1095, le frontiere della contea furono estese verso l'alta valle del Volturno. Alla metà del XII secolo il Molise era il più forte ed esteso stato continentale della monarchia. Alla morte di Ugo II (1168) la contea fu conferita dalla corona a Riccardo di Mandra; al principio del XIII secolo il Molise è sotto la signoria dei conti di Celano. Ma presto la contea di Molise si estinse come unità feudale, venendo il territorio aggregato prima alla Terra di Lavoro, poi alla Capitanata fino al 1807, quando venne eretto in provincia autonoma con capoluogo Campobasso e successivamente annesso al Regno d'Italia. La storia di questa terra non conosce lo splendore delle corti e le sue tradizioni dunque sono legate direttamente al popolo.

Storia

Paleolitico





Il campanile di San Martino



In località La Pineta, presso Isernia, durante gli scavi del 1979 è stato ritrovato un sito archeologico risalente a circa 730.000 anni fa. La ricostruzione archeologica evidenzia un habitat tipico della savana con un clima a due stagioni - una arida e l’altra con abbondanti precipitazioni -, dove elefanti, ippopotami e rinoceronti coesistevano con orsi delle caverne, cinghiali, cervidi e bovini. Nonostante i numerosi ritrovamenti archeologici, nessun elemento dell’uomo preistorico é tornato alla luce ma, da alcuni particolari dell’accampamento, è possibile tracciarne un profilo attendibile. Il ritrovamento di utensili come selci lavorate e Choppers (strumenti ricavati scheggiando le estremità di ciottoli), di ocra e di bruciature su resti ossei, così come di crani e di ossa piatte usate per la pavimentazione delle capanne, indicano un certo grado di intelligenza dell’homo Aeserniensis: si suppone la sua discendenza dall'Homo Erectus originario dell'Africa centrale. E’ possibile che quest’ultimo, nelle sue migrazioni in Europa e in Asia, abbia stabilito un insediamento nella nostra regione diventando così il progenitore del popolo molisano.SannitiIl popolo sannita trae origine dalla frammentazione delle stirpi italiche. Le popolazioni italiche ricorrevano all'emigrazione per realizzare un alleggerimento demografico, fenomeno che prendeva il nome di "Primavera Sacra" (Ver Sacrum): i giovani, consacrati al dio Marte e guidati da un animale sacro, andavano a colonizzare altre terre. Varie sono le tesi sull'origine del nome del popolo sannita, la più attendibile pare essere quella che lo fa derivare dal termine "Samnu", cioé consacrato. Le principali tribù sannite erano i Caraceni, i Pentri, i Caudini, gli Irpini ed i Frentani. Uno dei documenti di maggiore importanza sulla lingua sannita è la Tavola Osca, ritrovata nel territorio di Capracotta; scritta e letta da sinistra verso destra, descrive le regole e le cerimonie di un Santuario dedicato a Cerere. I Sanniti, che basavano la loro economia principalmente sulla pastorizia, sull'agricoltura e - in misura minore - sui commerci, erano temibili soldati ed esperti cavalieri come poterono constatare, a loro spese, i Romani, durante le tre guerre sannite e, in particolare, in occasione dell'umiliante disfatta delle Forche Caudine (321 a.C.).



Periodo romano



La prima azione dei Romani, in Molise, fu quella di smantellare gran parte delle fortificazioni sannite e di imporre un’organizzazione del territorio più accentrata che si basava sui Municipi e sulle Colonie. Lo sviluppo dei latifondi provocò lo spopolamento delle campagne e il fenomeno dell'urbanizzazione. A seguito della guerra sociale del 90-88 a.C., i Sanniti acquistarono la cittadinanza romana, ma la repressione di Silla causò un generale impoverimento. Fu sotto l’impero di Augusto che il territorio visse nuovamente un periodo di pace e prosperità. Le città che ebbero maggiore importanza furono Venafrum (Venafro), Aesernia (Isernia), Bovianum (Bojano), Saepinum (Altilia presso Sepino), Tevertum (Trivento) e Larinium (Larino).



Periodo medievale



Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) e con le invasioni barbariche, si svilupparono nuovi borghi attorno ai castelli degli aristocratici o dei nuovi signori barbari, costruiti sulle vecchie fortificazioni sannite o romane. La posizione dei signori e dei vescovi si rafforzò, i commerci e la produzione arretrarono a livelli di sussistenza. I Longobardi, convertiti al Cattolicesimo, fecero sorgere nella regione numerosi monasteri benedettini; fu fondata, nell’ottavo secolo, la potentissima Abbazia di San Vincenzo al Volturno. Nel Medioevo, nella città di Agnone, con il trasferimento di una comunità artigiana proveniente da Venezia, si favorì la costituzione di un settore di produzione terziaria e la riapertura dei canali commerciali adriatici. In seguito si succedettero, spesso intervallate da guerre per le successioni dinastiche, le dominazioni dei Normanni – che costituirono la contea di Molise -; degli Svevi – il cui re, Federico II, alleggerì la pressione feudale sui sudditi -; degli Angioini - che introdussero opifici per la lavorazione della lana, della seta e dell’oreficeria -; dei Borboni – che tentarono di dare un’organizzazione più accentrata allo Stato - degli Asburgo; e nuovamente dei Borboni. Personaggio di spicco del Basso Medioevo fu Pietro Angelerio da Morrone che divenne Papa nel 1294 col nome di Celestino V, citato da Dante nel III canto dell’Inferno.



L'Ottocento



Alla fine del XVIII secolo i Borboni favorirono una timida ripresa economica nel regno. Ferdinando IV iniziò i lavori della prima "strada postale" che collegava Napoli a Campobasso. In questi anni si sviluppò anche un certo fermento culturale; grazie a uomini come Vincenzo Cuoco, Giuseppe Maria Galanti e Francesco Maria Pepe fu aperta la prima scuola molisana a Civitacampomarano, fu realizzata un’ attenta descrizione del Molise e una coraggiosa critica del sistema feudale e delle distorsioni amministrative. L'economia del Molise continuò ad avere un carattere agricolo-pastorale. Con la caduta del Regno borbonico e la costituzione delle monarchie napoleoniche si realizzarono l'eversione della feudalità e il riordinamento della caotica amministrazione e del sistema giudiziario; in questo contesto fu costituita, nel 1806, la provincia di Molise. A Campobasso, nel 1810, fu fondata da Vincenzo Cuoco "l'Accademia agricola" con l'obbiettivo di favorire lo sviluppo della piccola proprietà contadina e lo sfruttamento, su basi scientifiche, dell'agricoltura. Ma le riforme, di natura politico-sociale, furono piuttosto prudenti e favorirono i ceti borghesi che, in molti casi, si sostituirono ai feudatari nella proprietà terriera, lasciando esclusi i ceti contadini. Dopo la restaurazione (1815), i Borboni sostanzialmente non modificarono la struttura statale realizzata dai monarchi napoleonidi.

La cucina

La pampanella a San Martino in Pensilis


Pampanella, scopece, torcinelli, tacquinelle, pecora alla brigante, pigna, cauciuni. Queste alcune delle meraviglie della cucina molisana che è varia e di alto livello. Tra i prodotti più importanti vi sono le olive da cui si estrae un olio dal sapore soave consumato anche crudo su insalate e crostini. L'eccellente fattura del prodotto ha fatto guadagnare all'olio molisano, nel 2003, il riconoscimento Dop. Sempre a proposito dell'olio d'oliva, molti paesi fanno parte dell'associazione "Città dell'olio", con sede a Larino. Il pane molisano conserva la sua antica manifattura produttiva e viene prodotto ancora in alcuni con le patate e la sofficità che lo contraddistinguono. Tanta importanza ha anche la pasta. Un tipo di pasta fresca tipico che prende il nome di cavatello è ottenuto con una sfoglia senza uova. É prodotto in particolare nel paese di Trivento. Questi vengono conditi con sugo di pomodoro o verdure. Come nel vicino Abruzzo, gli ovini signoreggiano tra i piatti di carne (oltre a offrire la possibilità di ottimi formaggi). La tradizione bucolica indica l'arrosto come modalità di cottura privilegiata, ma la rustica fantasia dei cuochi locali fornisce tutta una serie di invitanti suggerimenti per l'agnello come per la pecora. Nelle trattorie dell'interno è ancora possibile imbattersi nell'antica ricetta della «pecora alla brigante», uno spiedo insaporito da molte erbe aromatiche. Un piatto straordinario e tipico della società pastorale sono i «torcinelli», involtini fatti con le budella dell'agnello farcite con fegato, animelle e uova sode; con la stessa materia prima si fanno le "annodate di trippa", dove il budello riempito di verdure e lardo è invece bollito, con risultati che gli esperti considerano eccellenti. Assolutamente originale, unica nel suo genere al mondo, è la «pampanella», simile alla porchetta romana, carne di maiale con abbondante peperoncino, tipica di San Martino in Pensilis. Per ciò che riguarda i salumi, nel Molise vengono prodotti alcuni insaccati, come la soppressata, il capocollo e la ventricina (famosa è quella di Montenero di Bisacia, ma da tempo è in atto una disputa con l'Abruzzo per la paternità del salume). Fra i dolci sono tipiche le cancelle, simili alle waffel tedesche ma con l'aggiunta di semini di finocchio, i cippillati, ravioli cotti al forno ripieni di amarena, la pigna, dolce similie alla ciambella, ma più croccante, tradizionalmente preparato per la Pasqua. La ricerca dei migliori insaccati conduce inevitabilmente verso l'Alto Molise, dove si mantiene ancora la tradizione della norcineria più classica. Grande reputazione spetta alla soppressata, soprattutto a Castel del Giudice, Capracotta e Agnone, dove si trovano eccellenti assaggi di prosciutto affumicato. Una ventricina simile a quella abruzzese e certamente non meno piccante si produce a Montenero di Bisaccia. A Sessano vengono prodotte particolari salsicce di fegato di maiale, «frascateglie» nel dialetto locale, abbastanza simili ai mazzafegati e ai fegatazzi di regioni confinanti. Il loro consumo più diffuso è in compagnia della polenta. Ricordiamo in particolare le «mulette» una sorta di capocollo o coppa che si caratterizza per l'assenza del pepe sostituito generosamente con peperoncino; così come sono particolari i «sanguinati» fatti con sangue di maiale solidificato tagliato a pezzetti che viene cotto in acqua salata e amalgamato con mollica dei pane, buccia d'arancia, uva passa, prezzemolo, peperoncino e aglio. I formaggi prodotti nel Molise sono il pecorino, la ricotta, il caciocavallo, la «juncata», un formaggio morbido e cremoso che in alcuni paesi del Molise è cibo di devozione che si mangia a digiuno la mattina del giorno dell'Ascensione ed è considerato anche cibo propiziatorio da offrire a parenti e amici. Ma nel settore dei formaggi questa terra non vanta grandi differenze rispetto alla produzione abruzzese; può però vantare una particolare qualità come nel caso della mozzarella di Bojano, una borgata che sorge alle sorgenti del Biferno, dove si produce un fior di latte (denominato impropriamente mozzarella) squisito che viene offerto come antipasto. Ma non dimentichiamo le trote che vengono pescate nel fiume Biferno e che sono saporitissime anche perché cucinate con una semplice quanto gustosa salsa di erbe aromatiche. Sulla costa non manca il pesce che pure permette preparazioni particolari come la «zuppa di triglie», e gli «spaghetti con le seppie». Un'importante tradizione di gastronomia marinara è in uso nella zona, un insolito modo di conservare il pesce, la scapece: una marinata che si conserva in piccoli mastelli di legno, in cui è conservato il pesce senza lische, tagliato a pezzi e fritto. In particolare, a Termoli, in agosto, c'è la tradizionale sagra del pesce con la «pentolata», una gigantesca zuppa di triglie dell'Adriatico, che viene gustata dagli abitanti di molti paesi del Molise che convergono in questa ridente cittadina per festeggiare l'abbondanza di questo pesce offerta dal loro mare. E infine i dolci, un ambito molto significativo perché permette l'incontro con tradizioni diverse, legate alla storia del territorio e alle ricorrenze religiose o familiari, ma mette anche in risalto le diverse influenze che hanno lasciato traccia nel corso dei secoli. Un dolce ormai quasi scomparso, «o core», appartiene alla tradizione della borgata di Ielsi, abitata da genti di lontane origini bulgare. Più interessante ancora la famiglia dei "calzoni" (in dialetto "cauciuni"), che utilizza nel ripieno i ceci, abitudine probabilmente derivata da lontane preparazioni mediorientali, o le castagne. In pratica ogni paese ha una sua specialità, che va scoperta viaggiando e curiosando nei panifici, nelle pasticcerie e nei ricordi delle famiglie.




Termoli, particolare - foto roberto maurizio



Storia archeologica e arte

I principali monumenti del Molise testimoniano una storia millenaria, che ha origine nel Paleolitico. Ad Isernia il paleosuolo contenuto nel Museo Paleolitico conserva le tracce del passaggio dell’Homo Aeserniensis, il più antico abitatore della Regione : resti di ossa di animali uccisi e il segno di una capanna circolare raccontano storie di caccia a grandi animali in un ambiente selvaggio molto diverso dall’attuale. Il teatro di Pietrabbondante, posto in un incomparabile scenario naturale, parla dei Sanniti, popolo forte e bellicoso, capace di contrastare con determinazione la conquista romana dell’Italia , ma anche di costruire monumenti rilevanti, le cui tracce sono presenti in varie località della Regione. E poi Saepinum, la città che i Romani vincitori costruirono sul tratturo, mostra i suoi resti che si ergono nella piana di Boiano ed offre uno spettacolo suggestivo di colonne, capitelli e fregi riutilizzati dai pastori in epoche successive per costruire le loro abitazioni. Altre importanti testimonianze della presenza romana in Molise si trovano a Venafro, la Colonia Augusta Julia Venafrum, ad Isernia ed a Larino, dove si può ammirare in grande anfiteatro. Nel Medioevo, dopo la fine dell’Impero romano, sui monti molisani, da Monteroduni a Pescolanciano a Campobasso e Termoli, compaiono numerosi castelli e borghi cinti di mura e bellissime Chiese in uno stile romanico semplice ed affascinante, come S. Maria della Strada e la superba S. Maria di Canneto. In epoca rinascimentale le rudi fortezze medievali diventano comode dimore signorili, che si arricchiscono di affreschi pregevoli, come nel Castello di Gambatesa o in quello di Venafro. Il barocco è rappresentato in molte Chiese molisane, come poi il neoclassicismo. Alcune figure di spicco emergono nel panorama dell’arte : il pittore Paolo Gamba, che lavorò nel ‘700 in molte chiese del Molise, della Puglia e di altre regioni vicine e Francesco Paolo Di Zinno, autore dei Misteri, le ingegnose “macchine” grazie alle quali ancor oggi ogni anno a Campobasso angeli, demoni e santi popolano il cielo della città nella festività del Corpus Domini. La lunga storia del Molise lascia le sue tracce anche nelle feste, che ancora si celebrano secondo riti antichissimi : le ‘ndocce di Agnone, fiume di fuoco che illumina la notte santa di Natale; i riti del Carnevale, con maschere paurose di diavoli e cervi ; le “ carresi”, corse di buoi che a primavera si svolgono a San Martino in Pensilis ed imitate nei paesi di origine albanese (Portocannone e Ururi).

Minoranze etnico-linguistiche

Nel territorio molisano sono presenti alcune minoranze linguistiche, site tutte nella Provincia di Campobasso. Le principali sono quelle croate, parlate in particolare nei comuni di Montemitro, Acquaviva Collecroce e San Felice del Molise e albanese, parlate soprattutto a Campomarino, Ururi, Portocannone e Montecilfone.

La minoranza croata

La minoranza linguistica croata si è costituita insediandosi nel territorio compreso tra i fiumi Biferno e Trigno. Si tratta in particolare dei tre comuni di Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice del Molise, già citati, mentre è storicamente accertata la colonizzazione da parte di profughi croati dei comuni di Palata, Tavenna, Mafalda, San Biase, San Giacono degli Schiavoni, Montelongo e Petacciato, nella provincia di Campobasso, anche se soltanto nei primi tre paesi si conservano, ancora oggi, la lingua, gli usi ed i costumi della stirpe d’origine. L’idioma parlato dalla minoranza è sostanzialmente l’antica lingua croata del tipo štòkavo-ìkavo, in uso nella Dalmazia centrale fra i fiumi Cettina e Naretha, nel retroterra croato ed in Erzegovina. Secondo alcuni studi, si tratterebbe di un idioma conservato da circa 400 anni, con una fisionomia eminentemente pratica, appunto perché parlato in prevalenza da contadini, supportati dal fatto che non vi sarebbero presenti parole astratte. Secondo ricerche e lavori di studiosi e studenti locali, il patrimonio linguistico dei Croati del Molise è stato valutato sulle 3.000 parole, che arriverebbero a circa 5.000 vocaboli in base alle catalogazioni più recenti. L’antica lingua croata è, oggi, usata soprattutto nei rapporti familiari e nelle relazioni interpersonali. Essa è stata trasmessa per cinque secoli con la sola tradizione orale e non esistono infatti tracce di scritti, se si escludono alcune poesie. Essendo sempre stati fedeli alla chiesa di Roman, la messa è stata sempre celebrata sempre in lingua latina sino al Concilio Ecumenico Vaticano II quando fu permessa la celebrazione delle funzioni religiose nelle lingue locali. Purtroppo, per mancanza di sacerdoti del posto e per la difficoltà di tradurre in un linguaggio semplice e concreto la complessa terminologia liturgica, la celebrazione liturgica è stata sin da subito celebrata in lingua italiana, conservando però canti di lingua croata. La più consistente testimonianza scritta della lingua croata si ebbe a partire dal 1967 quando fu pubblicata la prima rivista bilingue italo-croata intitolata Naša ric/ La nostra parola, diventata poi Naš jezik/La nostra lingua, che aveva per motto la frase dell’eroe dei Croati del Molise, Nicola Neri, medico nato ad Acquaviva nel 1761 e professore di fisiologia, commissario alla guerra durante la Repubblica Partenopea, impiccato a Napoli nel 1799. I primi contatti degli slavi provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico lungo le coste molisane, di cui abbiamo documentazione certa, avvennero agli inizi del XIII secolo, per motivi economici, commerciali e culturali. Risale infatti al marzo 1203 un primo trattato commerciale tra la già fiorente Repubblica marinara di Ragusa/Dubrovnik in Dalmazia ed il piccolo porto molisano di Termoli per la concessione della isopolitìa (una istituzione dell’età ellenistica mediante la quale due comunità sancivano un reciproco diritto di cittadinanza), che comprendeva anche l’arboraticum ed il plateaticum, riferibili all’attracco delle navi ed al commercio. Per quanto attiene, invece, alla bolla di papa Bonifacio VIII del 22 settembre 1297 - che conterrebbe la citazione latina Castrum Aquaevivae, habitatum cum vassallis Schlavonis (Il paese di Acquaviva, abitato da sudditi Schiavoni) riportata anche nell’opera del Rešetar e poi ripresa pedissequamente da tutti gli autori posteriori - già nel 1950 il francescano Teodoro Badurina aveva dimostrato, riportando per primo il testo integrale della Bolla pontificia, come essa nominasse soltanto il monastero di Sant’Angelo in Palazzo (sito nell’attuale territorio di Acquaviva) nell’allora Diocesi di Guardialfiera, tra i beni dell’Ordine Melitense. La citazione latina, che nomina la località di Acquaviva come già abitata da coloni schiavoni, è di molto posteriore e risale al 1594, come ha potuto dimostrare un ricercatore locale che l’ha rinvenuta in un elenco di beni che furono a lungo feudatari dell’agro di Acquaviva Collecroce sino alla data della eversione della feudalità. Non vi è dubbio che le ondate migratorie più consistenti si verificarono dopo la famosa disfatta di Kossovo del 1389, meglio nota nella storiografia italiana come la Battaglia del Campo dei merli, che segnò la sconfitta degli eserciti cristiani e la progressiva espansione degli Ottomani nella penisola balcanica con conseguente esodo delle popolazioni slave ed albanesi verso la penisola italiana. A tal proposito è molto illuminante la sintetica ed efficace motivazione che ne dà, nel testo originario in latino del 1777, Mons. Francesco Lauria, Vescovo di Guardialfiera, in una delle relazioni per le periodiche visite "ad limina", a proposito della popolazione slava di Acquaviva, Palata e Cerritello: « Gli abitanti Schiavoni traggono origine da coloro che, essendo stata la Dalmazia invasa dai Turchi, al fine di non perire sotto la loro spada o di non essere condotti in loro misera schiavitù, una volta approdati ai porti italiani, istituirono delle nuove colonie nel nostro Regno di Napoli ». Con la conquista di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, i Turchi iniziarono l’espansione verso i territori settentrionali, abitati da popolazioni slave. E, com’era accaduto alle popolazioni albanesi qualche decennio prima, sin dal XVI° secolo le nuove migrazioni furono originate dalle invasioni turche. La Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli agevolarono gli insediamenti lungo le coste adriatiche per ripopolare le terre che, in quegli anni, erano rimaste abbandonate a seguito del vastissimo terremoto del 1456 e della pestilenza del 1495.La debolezza veneziana permise agli Aragonesi, presenti già nel Regno di Napoli, di estendere la loro influenza anche sull’altra sponda adriatica, ma nello stesso tempo favorì l’espansione turca. L’avanzata inarrestabile dei Turchi trasformò in vero e proprio esodo quella che era cadenzata emigrazione. Per favorire l’insediamento dei transadriatici, e in considerazione della loro povertà, i re aragonesi concessero agli immigrati del Regno di Napoli alcuni privilegi, come il dimezzamento dei tributi, per un periodo di circa cinquant’anni. Sebbene, in mancanza di documentazione d’archivio, non sia possibile definire con esattezza la datazione della venuta dei profughi slavi in Molise, gli studiosi prendono in considerazione la fine del XV secolo con delle motivazioni sia linguistiche sia numismatiche. Infatti, mentre si conservano nel Molise quasi tutti i termini in croato per indicare i frutti dell’agricoltura, mancano completamente le denominazioni slave per alcuni prodotti alimentari diffusisi velocemente in Europa dopo la scoperta dell’America (come le patate, i pomodori, il granturco, etc.). Inoltre si nota che nei tre paesi l’unità base della moneta è detta "puh", che in croato letteralmente significa "ghiro" evidentemente perché i primi profughi provenienti dalla Dalmazia avevano scambiato per un ghiro quell’ermellino raffigurato sulla più comune moneta d’argento coniata. La minoranza croata quasi sempre si trovò a riedificare e ripopolare antichi borghi, abbandonati a causa di terremoti e pestilenze. È il caso di Acquaviva Collecroce che - se pure esistita nello stesso posto già alla fine del secolo XIII - dovrebbe essersi spopolata in seguito ad eventi diversi e, poi, sarebbe stata ripopolata da profughi croati, tra il XV ed il XVI secolo, provenienti sia direttamente dalla Dalmazia sia dalla vicina località di Cerritello, dove convivevano già coloni slavi ed albanesi, con le rispettive chiese cattoliche di rito latino e greco. Per quanto riguarda il periodo di insediamento, è opportuno riportare quanto scrive il già citato Mons. Giannelli, allora vescovo di Termoli:
« Non si sa il tempo preciso nel quale vi fu fissata la colonia degli Schiavoni. Si può avere per verosimile che vennero nell’anno 1520 in circa: cioè quando si portarono ad abitare in San Felice, luogo a questo contermino ». Tra gli altri paesi già slavi, Palata, ormai italianizzata nella parlata ma i cui abitanti hanno conservato i cognomi chiaramente di origine croata, è forse l’unico abitato che aveva una testimonianza lapidea con una data precisa. Da più fonti infatti era riportata la seguente scritta, incisa sull’architrave della porta d’ingresso alla Chiesa parrocchiale di Santa Maria la Nova:
HOC PRIMUM DALMATIAE GENTES INCOLU E RE CASTRUM AC A FUNDAMENTIS EREX E RE TEMPLU ANNO DOMINI MDXXXI
(Le genti della Dalmazia abitarono in questa prima località - ed eressero la Chiesa dalle fondamenta Nell’anno del Signore 1531).
L’unico insediamento slavo che risulta fondato con certezza dalla popolazione minoritaria è il paese di San Giacomo degli Schiavoni. Mons. Giannelli scrive che, durante il governo di un suo predecessore:
« Verso la metà del XVI secolo il Vescovo di quel tempo Vincenzo Durante, per la coltura del terreno lasciato in abbandono per lo scarso numero de' naturali nei luoghi contermini, permise che vi fissassero il loro domicilio e vi edificassero case alcuni uomini e donne che, poveri e meschini dalla Dalmazia, erano approdati in questo lido dell’Adriatico mare. Stabilirono costoro la loro abitazione nella collina più elevata della tenuta (...) edificarono la Chiesa dedicata all’Apostolo S. Giacomo il maggiore (...) Se sia vero che, prima dei Sanniti aveva popolato questa regione de’ Frentani la gente dalmatina e liburna, come si dirà nel descrivere Petacciato, vennero i Dalmatini stessi a ripigliarne il possesso. Ed avendo nel descritto sito fissato il domicilio, nell’anno 1566 convennero col Vescovo Vincenzo Durante di quello che gli dava il Vescovo per il sostentamento e di quello che dovevano essi loro corrispondere alla Mensa vescovile, padrona assoluta dell’intero territorio »

La minoranza albanese. Gli Arbëreshë




Campomarino (Cb)




Più consistente è la presenza Arbëreshë, popolazione di lingua albanese, in paesi situati prevalentemente nel basso Molise.


Scritto da Antonio Libertucci
lunedì 05 novembre 2007

I paesi arbëreshë situati nel Molise, entro i confini della provincia di Campobasso, lungo la Valle del Biferno: Campomarino, Montecilfone, Portocannone e Ururi, appartengono oggi tutte e quattro alla Diocesi unificata di Termoli-Larino.
Prima dell'unificazione, delle due diocesi Montecilfone apparteneva a quella di Termoli, a quella di Larino gli altri tre. Fino al 1975 anche Chieuti (1), importante Comunità arbëreshe in provincia di Foggia, faceva parte della Diocesi di Larino, prima di passare a quella di San Severo in Puglia.
Le due diocesi, accorpate nel 1986, erano in effetti già unite "aeque principaliter in persona Episcopi" sin dal 1924. Sono entrambe di origine molto antica: risale al IV secolo quella di Larino, al VI secolo la diocesi di Termoli (2). Gli storici danno per certo che un vescovo di Larino, Paulus larinensis, abbia preso parte al "sacro e grande Concilio Ecumenico" celebrato a Nicea nel 325.
A Larino venne fondato il primo seminario post-tridentino della Chiesa, aperto ufficialmente in data 26 gennaio 1564 dal vescovo Belisario Balduino in conformità alle direttive della Riforma cattolica promossa dal Concilio di Trento (1545/63) (3).
Prima dell'arrivo degli Arbëreshë (sec. XV), era largamente diffusa nella zona del Larinese la presenza di numerosi monaci francescani itineranti, ma anche di basiliani (4) e di altre osservanze tipiche del medioevo: Celestini, Zoccolanti, Capriolanti, Discalciati (5); nel tempo, di questi piccoli monasteri alcuni furono soppressi e incorporati nell'Ordine dei Frati Minori, altri caddero distrutti dal violento terremoto avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 1456 (6).
Al loro arrivo nel feudo di Ururi, l'autunno del 1468 (o forse ancor prima) (7), gli Arbëreshë trovarono un territorio interamente sconvolto, campi incolti e borghi abbandonati non solo per la devastazione causata dal sisma, ma anche per le carestie e le frequenti incessanti incursioni saracene lungo le coste adriatiche del Regno (8).
Varie furono le ragioni che indussero gli Arbëreshë ad emigrare nel corso dei secoli dall'Arbëria per stanziarsi nelle regioni meridionali d'Italia; le ultime, d'ordine politico-religioso, provocate dall'invasione turca, andarono a sovrapporsi alle motivazioni prevalentemente economiche e militari che avevano causato migrazioni nel Molise già dal XIII secolo; "Molte famiglie dell'Albania e dell'Epiro, non soffrendo le barbarie del Turco, alcune si ritirarono nello stato Veneto, altre in Sicilia ... moltissime furono accolte in questa diocesi", riferisce mons. Tria, vescovo di Larino (9).
Ad introdurre gli Arbëreshë nelle terre del Molise fu mons. Antonio De Misseriis, vescovo di Larino (10); egli li accolse nella chiesa di S. Antonio da lui stesso fatta edificare appena fuori della città della sede vescovile e in quel luogo assegnò loro, divisi in gruppi di famiglie, le terre dove stanziarsi, lavorare e prosperare; non trascurando di fornirli prima del bestiame e degli attrezzi agricoli necessari.
Alcune famiglie raggiunsero il feudo di Ururi, sottoposto alla giurisdizione della chiesa di Larino (11) già dal 1075, sorto a seguito della donazione da parte di Roberto I, conte di Loritello (attuale Rotello), nipote di Roberto il Guiscardo, al vescovo di Larino; il feudo era allora completamente disabitato e abbandonato. Altri gruppi furono inviati a ripopolare i casali di Portocannone, di Cerritello (gli Arbëreshë di questo casale si rifugiarono poi nelle alture di Montecilfone spaventati dal tremendo flagello del colera scoppiato nella zona nel 1537) (12), di Campomarino e in altri casali sparsi nell'agro larinese: casali di S. Elena, di Colle Lauro, di San Barbato e nel casale di Santa Croce di Magliano dove furono relegati dai nativi nella parte più periferica del paese, quartiere tuttora chiamato "Quarto dei Greci" (gli Arbëreshë dagli indigeni venivano chiamati anche greci per via del loro rito bizantino celebrato in lingua greca).
Lo scenario che si presentava agli occhi degli Arbëreshë nelle terre molisane, dovette essere allora davvero desolante, ma ad essi non era concesso scoraggiarsi; da subito dovettero darsi da fare per ripristinare e migliorare le condizioni del territorio loro affidato.
Bonificarono e dissodarono la terra, ricostruirono le case dirute, ripararono le cadenti. Contribuirono, insomma, sensibilmente alla rigenerazione delle contrade colpite dalla depressione demografica ed economica.

Travagliata e carica di traversie fu perciò la vita degli antenati in queste nuove terre; non mancarono umiliazioni e sospetti da parte delle popolazioni indigene con le quali era difficile instaurare rapporti di buon vicinato, né la protezione e la benevolenza dei vescovi feudatari sia di Larino che di Termoli valsero a preservare i nuovi arrivati dalla diffidenza e dal clima di ostilità che andava creandosi attorno ad essi, in particolare, a causa della diversità della lingua e del rito religioso.
In verità, la pratica del rito bizantino metteva in agitazione anche i vescovi delle due diocesi, specialmente dopo il Concilio di Trento; non furono pochi, infatti, i ricorsi presentati alla Congregazione di Propaganda Fide da parte degli stessi vescovi, interessati com'erano ad affidare al clero latino le chiese delle comunità albanofone.
Gli Arbëreshë resistettero a lungo alle pressioni del clero latino, anche perché erano ben consapevoli di perdere, con la soppressione del rito bizantino, un punto di riferimento essenziale della propria identità religiosa e culturale.
Il rito bizantino fu praticato fino a tutto il sec. XVII; poi, ne decretò la fine mons. Giuseppe Catalani, vescovo di Larino (1686-1703), non senza numerose e rumorose proteste da parte delle popolazioni di Campomarino in particolare (13). A Ururi il primo parroco di rito latino fu tacciato di apostasia e si guadagnò il perenne soprannome di "ndërrjon" tuttora perdurante nella famiglia discendente (14); gli Ururesi per lungo tempo gli negarono le decime.
Il tempo andò smussando i contrasti; chiusa definitivamente la controversia del rito a favore di quello latino; alleviato il peso delle decime che gli Arbëreshë erano sempre e in ogni caso tenuti a versare alle rispettive mense vescovili, la vita degli Arbëreshë si avviò lentamente e faticosamente verso una più dignitosa condizione di vita; l'ingegnosità, la perseveranza, la laboriosità fece il resto.
Insieme con le Comunità di Villa Badessa (Pescara) dove, mentre è tuttora praticato il rito bizantino, la lingua arbëreshe si è da tempo dissolta (15), e di Pianiano (Viterbo) dove invece da tempo si sono spenti sia il rito bizantino sia la parlata arbëreshe (16), i paesi italo-albanesi molisani sono quelli situati più a Nord nel Continente, geograficamente lontani e isolati dalle Comunità albanofone concentrate in Calabria e in Sicilia, e perciò non coinvolti nelle attività e nelle istituzioni culturali sorte, per la conservazione e la tutela della lingua e del rito, delle quali gli Arbëreshë di Sicilia e di Calabria furono e sono tenaci custodi e fervidi cultori.
Tagliati fuori, perciò, da ogni benefico contatto con la vitalità dei gjërì dei nuclei di Sicilia e di Calabria, privati della pratica del rito bizantino da oltre due secoli, privi di ogni qualsiasi classe intellettuale che avesse mai preso a cuore il problema della conservazione e coltivazione della parlata arbëreshe, è già un miracolo che l'arbërishit si sia ancora mantenuto in buono stato a tutt'oggi nelle nostre contrade, salvato forse proprio da una ben radicata cultura popolare, dalla capacità, cioè, del popolo di assorbire il nuovo senza perdere la propria originalità.
Il primo e più antico documento scritto in arbërishit nelle Comunità arbëreshe molisane risale al 1875 con la traduzione in arbëresh di una novella del Decamerone di Boccaccio fatta dall'allora arciprete di Ururi (17).
Solo recentemente, infatti, grazie anche all'impulso della Legge 482/99, da appena qualche anno, si va notando nei paesi arbëreshë del Molise un certo risveglio, una presa di coscienza di come sia importante e doveroso avviare un processo di salvaguardia per tutelare e valorizzare il patrimonio storico e culturale degli Arbëreshë, e preservarne la lingua mediante un'intensa opera di alfabetizzazione ad ogni livello.
Oggi, tutte e quattro le comunità arbëreshe, dopo un lungo periodo di dure vicissitudini e di fatiche e di emarginazione sociale, politica e culturale, sono altrettante cittadine linde, ordinate, bene organizzate e bene amministrate, tese al benessere economico e aperte a sempre nuove iniziative culturali e di progresso civile.
Di ciascuna di esse si proverà, ora, qui di seguito, a tracciare sinteticamente un quadro topografico-storico, quanto più preciso possibile, ma certamente non esaustivo, in quanto le poche notizie riportate sono da completare e integrare con ulteriori indagini sia archivistiche che bibliografiche.
La patrona degli italo-albanesi nel Molise è la Madonna Grande (Shën Mërija Madhe), venerata nel santuario mariano di Nuova Cliternia, nei pressi di Campomarino, festeggiata il 6 agosto (18) (Besa/Roma).

Note
1. In questa cittadina fu rinvenuto il manoscritto del XVIII secolo (noto come il Codice Chieutino), opera dell'arciprete Don Nicolò Figlia, sacerdote di rito greco-bizantino, pubblicata a cura di M. Mandalà nel 1995.
2. Nella cattedrale di Termoli furono ritrovate nel maggio del 1945 i resti mortali di San Timoteo, discepolo prediletto di San Paolo, compatrono, con San Basso, di Termoli.
3. Mons. Costanzo Micci, Il primo seminario della cattolicità, in L'Osservatore Romano del 2.2.1964; Pietrantonio, U., Il seminario di Larino primo postridentino, Tip. Polig. Vat., 1965.
4. Nel 1054, il Monastero di Santa Maria di Tremiti assorbiva una cella basiliana sorta sul lago di Lesina (cfr. A. Petrucci, I bizantini e il Gargano, Foggia 1955).
5. Pietrantonio, U., Il monachesimo benedettino nell'Abruzzo e nel Molise, Lanciano, Carabba ed., 1988;
Anastasi L., I Francescani, Palermo 1952.
6. Sul violento sisma del 1456 esiste una vasta bibliografia:
Baratta M., I terremoti d'Italia, 1901 (ristampa anastati ca 1979); Figliuolo B., Il terremoto del 1456, 1988; Motta E., I terremoti di Napoli negli anni 1456 e 1466, in ASPN, XII (1887); in proposito, mi piace segnalare che il primo a fissare la notizia su carta, espressa in dialetto calabrese translitterato in greco, fu un certo monaco di nome Romano Paoli, il quale annotò l'avvenimento del sisma all'istante, appena se ne è reso conto, nel margine superiore del breviario che stava in quel momento recitando nel chiuso della sua cella nel monastero basiliano di Carbone (PZ), (cfr. Annotazioni volgari di S. Elia di Carbone a cura di A. M. Perrone e A. Varvaro, in Medioevo Romanzo, VIII, 1983,1).
7. "Nel 1455, i Canonici del Monastero di S. Maria di Tremiti, ottennero da Callisto III di poter locare terreni di loro proprietà agli Albanesi allora giunti nel Molise", in Codice Diplomatico del Monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di A. Petrucci, Roma 1960 pag. LXXXVII, p. I; (cfr. Archivio Segreto Vaticano Reg. Lateran. 498, c.85 A.); Mammarella, G., Larino sacra, Campobasso 1993.
8 Marino L., La difesa costiera contro i saraceni e la vita del marchese di Celenza alle torri di Capitanata, Campobasso, Nocera editore, 1977; Algranati, G., Le torri costiere del Mezzogiorno e le tradizioni popolari, in Brutium, 9, 10 settembre 1966.
9. Mons Tria Giovanni Andrea, Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della Città e Diocesi di Larino, Roma 1744; Ricci, P., Fogli abbandonati di storia larinese, Larino 1913; Magliano, A., Considerazioni storiche sulla città di Larino, Campobasso 1895; Carfagnini, L., Memorie storiche di Montorio, manoscritto conservato nell'archivio privato di Guido Vincelli in Montorio nei Frentani (CB).
10. Mammarella G., Larino sacra, Campobasso 1993.
11. Libertucci A., Il nome del mio paese, in Kamastra, a. IV, n. 1, gennaio/febbraio 2000.
12. Resětar M., Le colonie serbocroate nell'Italia Meridionale, Vienna 1911.
13. Korolewskij P.C., Italo-greci e italo-albanesi; documenti esistenti nell'archivio di Propaganda Fide (cfr. Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, a. XVI, fasc. 1-4, 1947).
14. Pertanto è inesatta la notizia riportata nel "Dizionario biobibliografico degli italo-albanesi" di G. Laviola, secondo la quale mons. Felice Samuele Rodotà nel 1736/1737 avrebbe visitato anche le chiese greche della Diocesi di Larino; a quell'epoca, in realtà, il rito bizantino nei paesi arbëreshë del Molise era già stato soppresso da più decenni; chiese, sulle quali, peraltro, il vescovo di Berea non avrebbe avuto alcuna giurisdizione. Le uniche visite ai monasteri e alle chiese greche del Molise potrebbero essere state quelle effettuate, per ordine di Onorio III, dal vescovo di Crotone e dall'Abbate di Grottaferrata nel maggio del 1221: "Honorius III episcopo Crotonensi et Abbati Criptae Ferratae mandat ut graecorum monasteria ordinis S. Basilii in Terra Laboris, Apulia et Calabria constituta visitent et reforment" (cfr Reg. Vat. 11, f. 122, n. 612).
15. Bellizzi L., Villa Badessa, Pescara 1994;
16. Granelli A., Pianiano, Una colonia albanese dello Stato Pontificio, Roma 1913; Stendardi, E., Pianiano e i suoi ricordi albanesi, Roma 1939; Donati A., Un vescovo nativo di una colonia albanese nel Lazio, Michelangelo Calmet (1771-1817), in Rivista d'Albania, anno IV, giugno 1943; Fioriti L., Un'emigrazione albanese nella Tuscia, in Zjarri (numero speciale 1969-1989) anno XX, n. 33, 1989; Pianiano tra gli Etruschi, in Besa-Fede n. 174, maggio 2005.
17. Il parroco si chiamava Andrea Blanco; la novella tradotta nella parlata arbëreshe di Ururi (la nona del Decamerone) fu pubblicata nel libro di Giovanni Papanti: I parlari italiani in Certaldo, Livorno 1875 (cfr. Libertucci, A., Il documento più antico della parlata arbëreshe di Ururi, in Kamastra, a. 7, n. 2, 2003).
18. Delle Donne Marangone C., Pellegrini a Madonna Grande, 1999.

Articolo tratto dalla rivista Besa, Novembre 2007

Da "Viaggio nel Molise" di Francesco Jovine




Termoli. La Madonnina - foto di roberto maurizio




Quelli di Marzo sono giorni in cui in paese si festeggia San Giuseppe. Un vecchio, una vecchia poveri entrambi, e un bambino vengono prescelti per costituire la Sacra Famiglia. Dopo la Messa solenne i due vecchi si avviano alla casa dove sono invitati tenendo per mano il bimbo che precede al centro. Sono puliti, assestati, compunti; il bimbo è vestito secondo la usanza campagnola, come un adulto: di scuro con calzoni lunghi, scarpe chiodate, cappelluccio tondo; e si guarda intorno con gli occhi stupiti, serio e grave come quelli che lo accompagnano. Lungo la via principale il terzetto incontra altre "Sacre Famiglie" che hanno la stessa aria, la stessa andatura. Arrivati nella casa designata, S. Giuseppe, la Madonna e il Bambino dicono: ""Gesù e Maria"". La famiglia devota che è in gruppo ad attenderli risponde: ""Oggi e sempre"". In una stanzetta appartata c'è la tavola allestita per gli ospiti: le donne della famiglia servono il pasto, scalze e silenziose. Neanche il vecchio, la vecchia e il bambino parlano; tutto il pasto deve svolgersi muto, senza che nessuno osi turbare l'atmosfera di austera devozione che è nell'atto. Benché il pranzo sia di tredici portate, maccheroni con mollica fritta, fagioli, ceci, riso, lumache, funghi, pesce ecc. la funzione si svolge rapidamente: le vecchie mandibole dei due sacri ospiti chissà quanto impiegherebbero a masticare quel ben di Dio. Così assaggiano appena le portate; i resti vengono scrupolosamente mandati nelle ""coscine"" a casa, insieme con un pane enorme che pare la pietra di un'aia. Partita la "Sacra Famiglia" s'inizia il banchetto comune, più rumoroso, allegro, con numero imprecisabile di ospiti. La tavola è apparecchiata. Chiunque entri e chiede in nome di Gesù e Maria può sedersi a tavola e mangiare. Gli saranno serviti i ceci e i fagioli: grandi, tiepidi, ben cotti, saporiti di sale e di olio verde. Questi legumi sono l'orgoglio e il vanto delle donne che si sono alzate due ore prima dell'alba per metterli al fuoco nelle grandi pentole di coccio e hanno sentito nel vento di marzo brontolante sul camino, la voce paterna del Santo che concede la sua grazia e l'abbondanza alle sue devote. A tavola, ritualmente, si dice che ceci così grossi e saporiti, fagioli così teneri e bianchi, solo la santa bontà del Patriarca immacolato può ottenerli. Tutti lodano il Santo e mangiano e bevono; ma i veri pezzenti, quelli irsuti, laceri e imploranti che in occasione della festa calano da Morrone e da Lupara, da Castebottaccio, non osano sedersi; portano la bisaccia per il pane e il secchietto per la minestra. Finita la questua vanno solitari a saziarsi all'ombra delle fratte già fiorite di albaspina.



Le fotografie sono di roberto maurizio